[RIFLESSIONE] In cammino verso la Pasqua/5: Come il chicco di grano

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Il percorso quaresimale sta giungendo al suo termine e nel Vangelo (Gv 12,20-33) di questa domenica quinta di Quaresima si delinea già l’epilogo del ministero terreno del Signore Gesù: la croce è ormai realtà, non più una profezia incompresa e perciò rifiutata decisamente dal piccolo gruppo dei discepoli. Si tratta di un discorso duro perché ha il sapore del rifiuto, del tradimento, della sconfitta, dello sconforto, della fine di un sogno. Solamente la tenerezza e la sensibilità pedagogica del Maestro sanno proporre il messaggio della morte con una immagine delicata, anticipatrice di futuro.

Il prologo dell’evento è una richiesta: vogliamo vedere Gesù, chiedono alcuni greci, venuti a Gerusalemme per l’imminente festa di Pasqua, vigilia della passione, morte e risurrezione del Signore. Interrogativo assai importante. Non sappiamo se chiedevano solo di vedere un volto, un corpo, una voce; oppure di conoscere una persona, che in quei giorni, dopo l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, occupava la scena, anche per l’intendimento ormai scoperto dei capi dei sacerdoti e dei farisei di catturarlo e di giustiziarlo. Bella domanda, che la liturgia pone oggi a quanti sono disposti ad accostarsi al Redentore per conoscerlo e riconoscerlo.

La risposta di Gesù è l’esile parabola del piccolo chicco di grano, nel quale rivela se stesso e predice la sua fine ormai imminente con un ricorso ai minimi termini. Sono ormai lontani i tempi in cui si presentò come pastore, vite, porta dell’ovile, via verità e vita, per citare solo alcune delle metafore più significative. Oggi egli è il piccolo chicco che non vuole restare solo e nemmeno marcire, dimenticato nel grembo della terra. Il Cristo deve e vuole morire per diventare frutto nuovo e abbondante, nella logica della germinazione. Infatti, «il chicco offre al germe (e sono una cosa sola) se stesso in nutrimento, come una madre offre al bimbo il suo seno» (p. Ermes Ronchi).

La croce intravista, allora, non è il nudo legno che annienta una vita e distrugge le relazioni belle, ma il grembo che alimenta il dono di sé in modo definitivo e ineguagliabile. E questo è il disegno del Padre, che fa sentire la sua voce e rivela nella croce non la fine di un sogno, ma l’epifania della gloria: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (Gv12,28).

In questa pandemia molti hanno scelto la via e la logica del seme, dando alla propria vita e alla propria professione la dimensione del dono incondizionato, nel segno di una croce, accettata e trasfigurata. Queste testimonianze dovrebbero scuotere e far riflettere quanti rifiutano o fanno fatica ad accettare le croci, più o meno impegnative, delle privazioni di aspetti certamente non indispensabili della loro esistenza. La trasformazione di tali croci in dono, come il Signore Gesù, è certamente l’atteggiamento più conveniente per vincere talune irrequietezze e per celebrare la Pasqua in sintonia con i sentimenti del Maestro (cfr Fil 2,5). Infatti, «per attendere l’alba non c’è altro percorso che quello della notte» (Khalil Gibran).

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