[PASQUA] Tempo di grazia in cui Cristo vince la morte e dona la vita

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All’approssimarsi della Settimana santa e delle solennità pasquali scelgo di mettere a fuoco una questione, per me, determinante: il cambiamento epocale culturale che ci ha portato oltre la cristianità attende la elaborazione di una nuova consapevolezza di legame del tempo pasquale, tempo di grazia, ottavo giorno della settimana, tempo liturgico, con il tempo della vita, della quotidianità, dello sforzo, alcune volte eroico, del vivere. La teologia chiama questi due tempi diversamente, il primo kairos, ovvero occasione favorevole, grazia; l’altro kronos, ovvero quotidianità, cronologia. Il legame necessario fra entrambi, al tempo della cristianità collettiva, è stato custodito fortemente dalla preghiera, dalla testimonianza, dalla partecipazione; legame spirituale e culturale, senza né contraddizione né parallelismo. Gradualmente le cose si sono però distanziate. Avvertiamo tutti la necessità di superare queste scissioni tra religiosità culturale e partecipazione ai momenti liturgici. Penso, ad esempio, alla sproporzione evidente tra la liturgia della croce del Venerdì santo e le varie processioni nella nostra terra di Sicilia, sempre di Venerdì santo, del Gesù morto e dell’Addolorata.

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Un distanziarsi disagevole dell’affezione popolare del riconoscersi per fede e per dolore nelle vicende gesuane della passione, dalla partecipazione liturgica a tali vicende che la liturgia stessa permette e realizza. Il grande sforzo di unificazione delle due esperienze di partecipazione dell’affezione e del memoriale spesso è stato determinato da cammini di catechesi e da formazione pastorale. La mia riflessione si orienta allora a una esperienza dell’umano capace di approcciarsi alla buona notizia della risurrezione, non sentendola estranea alla propria affezione, né percependola come una sorta di dogma della speranza e del lieto fine, che però non può avere nessuna certezza e nessun aggancio con l’esperienza della vita. Un detto popolare, meglio, una mentalità tra di noi afferma: l’unica cosa certa è la morte! Di fronte a questa notizia la risurrezione sembra una notizia che non appartiene all’esperienza, ma che trova dicibilità solo come speranza perché parola certa solo nel regno del divino, nelle cose che riguardano Dio, che si spinge fino a Suo figlio, forse, lo speriamo fino ai nostri figli.

Tra la certezza della morte e la speranza della risurrezione, nel nome di Suo e dei nostri figli, vorrei proporre ora una breve nota di legame tra il sentire dell’affezione umana e il sentire della fede. Si tratta di abbandonare la morte come luogo di certezza percepita al modo del destino di ognuno di noi o peggio come il compiersi di un giudizio irreversibile di Dio sulla nostra vita, e di riconoscerla come il luogo cristico in cui Gesù ha offerto sé stesso per noi, è diventato la nostra morte per poter essere anche la nostra risurrezione. Dalla certezza della morte, al morire (e al vivere) in Cristo. Come si fa questo passaggio nell’affezione dell’umano? Attraverso la quotidiana scelta di dare la propria vita. Non si tratta di morire, ma di dare la propria vita. È il processo dell’affezione pasquale che abita da dentro il tempo della vita. «Per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio» (Gv 10, 17-18). 

don Vito Impellizzeri per Condividere
Preside della Facoltà Teologica di Sicilia

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