[L’INTERVISTA] Mons. Giurdanella: «Contro la mafia la testimonianza limpida del Vangelo»

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Eccellenza, l’arresto di Matteo Messina Denaro ha riproposto con forza il tema della presenza e del potere della mafia in Sicilia, tema su cui la Chiesa più volte (anche per bocca dei Papi) si è espressa con forza. Quale deve essere il ruolo delle comunità cristiane di fronte al fenomeno mafioso?

«Sì, negli anni è diventato chiaro e deciso il giudizio della Chiesa sulla mafia, come sistema di peccato che offende Dio e l’uomo, la sua dignità, e l’incompatibilità dell’adesione alla mafia con l’adesione alla comunità dei discepoli del Signore Crocifisso e Risorto. Sulla chiarezza del no della Chiesa alla mafia, e a tutte le sue “seduzioni” – potremmo dire, tutti ricordano il grido di Giovanni Paolo II nella Valle dei templi “Convertitevi! Ci sarà il giudizio di Dio!”. La condanna diventa anche scomunica ufficiale, ma è anzitutto un’incompatibilità sostanziale: la mafia si riunisce per logiche di potere, di asservimento, di morte; la comunità dei discepoli si lascia riunire dal suo Signore Crocifisso e Risorto per assimilare la logica di Dio, del suo amore che va fino in fondo e genera vita, anche laddove e anzi soprattutto laddove ci sono sofferenza, dolore, ingiustizia. Ecco che il primo ruolo delle comunità cristiane nella lotta alla mafia è quello della loro limpida testimonianza del Vangelo e la coerenza nella vita, che comporta anche una chiara testimonianza di legalità e di distanza da ambienti mafiosi. Lo testimoniano i nostri martiri, i nostri avamposti, come don Puglisi e Livatino. Don Puglisi era fermissimo nel contrastare qualsiasi strumentalizzazione della fede da parte di qualsiasi forma di potere, il giudice Livatino evitava anche feste ed eventi, se si poteva supporre la contiguità con uomini della mafia nelle sue ramificazioni e tentacoli che toccano anche i mondi della politica e dell’economia. Insieme a una limpida testimonianza, i cristiani siamo chiamati a partecipare al corale impegno contro la mafia che, alla radice, richiede una rigenerazione culturale ed educativa. Cosa Nostra, infatti, affonda le radici nel vuoto dei diritti e della partecipazione sociale, si può battere quindi con esiti duraturi solo sviluppando e consolidando una cultura dei diritti, alternativa alla mentalità del favore, e con un chiaro impegno per la giustizia sociale e per il superamento delle vecchie e nuove povertà, a iniziare da quelle educative».

L’interrogativo che molti cristiani si pongono è se si possa perdonare un uomo come Messina Denaro che in questi anni si è macchiato di crimini odiosi. Cosa si può dire loro?

«Il perdono già ordinariamente non è passare sopra il male, ma affrontarlo e superarlo con la logica di un amore così grande che può sempre sperare che il peccatore si converta si redima. Si può dare il perdono solo a un livello di fede e umanità matura, ma esso non elimina la necessità che la legge persegua e punisca i reati. E non possiamo darlo per conto di altri. C’è per questo, anzitutto, un profondo rispetto per il grande dolore delle vittime innocenti della mafia; c’è uno sgomento così grande di fronte all’efferatezza dei crimini che anzitutto diventano invocazione a Dio e invito agli uomini della mafia a convertirsi e a collaborare con la giustizia. Questo peraltro deve essere chiaro: un pentimento deve diventare collaborazione con lo Stato, impegnato in una lotta alla mafia che ha visto il sacrificio della vita di tantissimi magistrati e donne e uomini delle istituzioni e delle forze dell’ordine. I cristiani non si mettono al posto di Dio, che sarà il giudice ultimo della vita di tutti (compresi criminali efferati come tanti capi della mafia) e della storia, ma partecipano dei suoi sentimenti e per questo nulla possono escludere, ma anche nulla trattare con superficialità. Il perdono è quell’amore più grande, entro cui si colloca l’istanza della giustizia per i crimini e la speranza che il criminale si ravveda, quell’amore più grande che ha contrapposto, allo sparo del mafioso, il sorriso del credente, come nel caso nel martirio di don Puglisi, e che è diventato la domanda del giudice Livatino simile a quella che si canta nelle Lamentazioni del Signore il venerdì santo: Chi vi fici? Quest’amore più grande in modo luminoso ha già sconfitto la mafia e ora chiede a tutti più coerenza e più coraggio!».

A volte, specie in occasioni di processioni o manifestazioni di pietà popolare, si corre il rischio che il sentimento religioso si mescoli ad altro, come nel caso degli inchini. Come aiutare i siciliani a vivere la pietà popolare in modo autenticamente cristiano e come preservare le confraternite e le manifestazioni religiose da ogni possibile inquinamento?

«Anche nel caso della pietà popolare va recuperato il suo senso più autentico, vanno eliminati tutti gli elementi incoerenti attraverso una paziente e chiara azione educativa. Che diventa deciso divieto di ogni forma di riverenza al potere mafioso e ai suoi simboli, atti condannati con molta fermezza dalle Chiese di Sicilia. Le confraternite dovranno coltivare un maggiore spirito ecclesiale, nutrirsi della Parola e diventare soggetti di festa, e non di feste, di cammini liberanti e non di soste di servitù. Con necessarie forme, non solo di distanza da influenze della mafia, ma anche di strumentalizzazione di qualsiasi tipo della fede e di superamento di sprechi che offendono i tanti figli di Dio che soffrono la fame e la miseria. Le manifestazioni religiose, per dirsi tali, necessitano di un’autorizzazione ecclesiastica, della cui importanza come argine e prevenzione siamo sempre più consapevoli. Speriamo tanto che il sangue dei martiri, il dolore delle vittime innocenti e dei loro familiari, il bene di tanta gente semplice siano di aiuto nel purificare le nostre feste, e la vita religiosa e sociale in genere, da ogni condizionamento mafioso. Posso assicurare che in questa direzione si cammina, e alcune consapevolezze crescono. Continuo a invitare tutti a superare ogni forma, diretta e indiretta, di omertà e diventare donne e uomini della Pasqua: della liberazione dai faraoni di ieri e di oggi».

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