[L’INTERVENTO] Il cambio di formule nelle parole, ma conta il senso dell’invocazione

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Cambiano le parole, non cambia il senso del Padre Nostro. La nuova traduzione, approvata dalla Conferenza episcopale italiana, sostituisce la frase «non ci indurre in tentazione» con un’altra espressione: «Non ci abbandonare alla tentazione». Un cambio di formula che trova senso più che nell’evoluzione della lingua italiana, nell’aderenza al concetto che si vuole esprimere in quel passo della preghiera. È vero, l’italiano è una lingua dinamica. Che cambia nel tempo in funzione degli usi comuni che vengono codificati.

Filippo Passantino.

Ma, in questo caso, il problema è in realtà storico e concettuale. L’espressione «non ci indurre in tentazione» ci mette a disagio. Perché nel nostro sentire comune pensiamo a Dio come a colui che ci soccorre e ci sostiene nelle tentazioni, come un padre che sostiene nelle cadute i propri figli, non come colui che le provoca.  Un dato di fatto è che una traduzione perfetta non esiste, perché ogni traduzione è una interpretazione. Quella che conta è piuttosto l’intenzione che conserviamo, mentre recitiamo quelle formule. È per questo motivo che il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, ha assicurato che «va in paradiso anche la vecchina che recitava il Padre Nostro dicendo “non ci indurre in tentazione”».

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L’origine della questione è comunque nella traduzione di san Girolamo dal greco alla Vulgata latina in «ne nos inducas in tentationem », divenuto «non ci indurre in tentazione». Più che una traduzione è una trasposizione in italiano del latino parola per parola.  L’espressione originale greca «kài mé eisenènkes hemàs eis peirasmòn» significa condurre dentro, fare entrare. Quindi, più che indurre dovremmo dire introdurre. Anche la parola tentazione rischia di causare equivoci. Perché peirasmòn indica una prova. E non è pensabile che Dio ci abbandoni al male. È, invece, pensabile che Dio, pur non inducendoci in tentazione, non ci risparmia la prova. Fu così con la fede di Abramo e con la pazienza di Giobbe. Anche Gesù stesso nel deserto è sottoposto alla prova.

E la vita è un periodo e un momento di prova: a ciascuno non viene risparmiato il peso della vita e della propria croce. La richiesta di Gesù al Padre di «allontanare questo calice» nell’orto del Getsemani ne è riflesso: è una richiesta umana e cristiana.  Il credente nel Padre Nostro chiede a Dio di poter evitare le prove più dure, poco dopo aver chiesto che sia fatta la sua volontà. Proprio come fece Gesù in quell’occasione. Ed è ciò che continuiamo a fare, nonostante il labirinto di traduzioni, recitando il Padre Nostro. Continuare a pregare nel proprio cuore con l’espressione «non ci indurre in tentazione» rischia di diventare una questione di abitudine. Ma, nell’imperfezione della traduzione, può non essere un errore se si conserva nel proprio cuore il giusto senso dell’espressione.

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