[L’ANALISI] Precari e stabilizzazione: i chiaroscuri di una vicenda lunga decenni

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La questione della stabilizzazione dei precari si ripresenta, ancora una volta, sul tavolo di amministratori e funzionari degli enti locali con tutto il carico di contraddizioni e chiaroscuri che da sempre caratterizzano uno dei temi cruciali della storia politica e sociale della nostra terra. Per tutti questi lavoratori precari sembrano finalmente essersi aperte le porte per una occupazione stabile, anche se il percorso non sembra né chiaro né facile. I comuni, infatti, non hanno autonomia e libertà di assunzione, e sono soggetti da oltre un decennio a vincoli e limiti imposti per motivi di finanza pubblica dallo Stato; il vincolo più importante – fermo restando quello finanziario e di capacità di bilancio – è costituito dal tetto al turn over, cioè dalle norme che consentono di sostituire soltanto una parte dei dipendenti collocati in pensione.

Nel corso del 2017 tale vincolo è stato allentato, passando dal 25% al 75% per i comuni più virtuosi e in regola con i vincoli di bilancio; un ulteriore spinta è arrivata dal decreto Madia, con cui lo Stato ha previsto la possibilità di una assunzione straordinaria di soggetti che hanno lavorato per almeno 3 anni alle dipendenze di pubbliche amministrazioni con contratti di diritto privato. Per superare i vincoli del turn over la legge Madia ha, anche, previsto che i comuni possono utilizzare per assumere a tempo indeterminato le risorse assunzionali al momento impiegate per assunzioni a termine e collaborazioni. La Regione Siciliana con una legge del dicembre 2016 ha anche assunto l’impegno di garantire ai comuni per ogni precario stabilizzato lo stesso contributo finanziario erogato fino al 2015 per contribuire al pagamento della retribuzione, fino al termine della vita lavorativa. Resta, tuttavia, il vincolo delle dotazioni organiche; per poter stabilizzare i comuni debbono avere i posti disponibili e vacanti nelle proprie dotazioni organiche e ciò, di fatto, crea particolari difficoltà in quegli enti dove i precari sono addirittura più numerosi del personale di ruolo.

La Corte dei conti, inoltre, continua a ritenere – sulla base di una norma del 2016 che meriterebbe una modifica o un chiarimento – che fino alla completa attuazione della riforma delle ex province e alla ricollocazione dei dipendenti provinciali non sia consentito in Sicilia procedere alla stabilizzazione di nessun precario. Sul fronte degli Asu, lavoratori senza contratto, nel 2017 è stata approvata una legge regionale che prevede la concessione ai comuni che li stabilizzano attraverso procedure assunzionali di un contributo per 5 anni pari all’importo del sussidio attualmente erogato ai lavoratori stessi: si tratta di una norma che non ha riscosso successo tra gli enti locali, i quali per non gravare sui propri bilanci dovrebbero stipulare contratti di lavoro a 12 ore settimanali, continuando a pagare i lavoratori con retribuzioni sotto la soglia di dignità. Mentre i Comuni sono alle prese con queste importanti decisioni, senza che la Regione allo stato abbia emanato alcun indirizzo o orientamento applicativo, i lavoratori stanchi di aspettare hanno intrapreso la via giudiziaria, creando enormi problemi alla tenuta dei bilanci comunali.

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I lavoratori Asu ritengono di essere stati utilizzati non a supporto di dipendenti di ruolo come avrebbe dovuto essere per un lavoratore socialmente utile, ma come addetti esclusivi ad alcuni servizi non solo esterni ma anche interni; e sulla base di recenti orientamenti della corte di cassazione hanno citato alcuni comuni innanzi al giudice del lavoro chiedendo il pagamento delle differenze retributive tra l’assegno Inps percepito e la retribuzione che sarebbe loro spettata per le ore lavorative svolte qualora fossero stati inquadrati con contratto di lavoro a tempo determinato parziale; tenendo conto della prescrizione quinquennale, i comuni rischiano di dover pagare a ciascun lavoratore circa 25 mila euro. Più grave e più concreta la prospettiva del contenzioso avviato dai precari titolari di contratto di lavoro che hanno chiesto al giudice del lavoro di condannare i comuni a risarcire loro i danni causati dalla violazione del tetto massimo dei 36 mesi alla durata del contratto a termine senza essere stati assunti in ruolo.

La legge prevede che nel caso di violazione delle norme di derivazione europea sui contratti a termine, i comuni debbono risarcire ai lavoratori il danno subito da tale attività illecita. La Cassazione nel 2016 ha stabilito che tale danno va quantificato tra 2,5 e 10 mensilità dell’ultima retribuzione percepita. alcuni lavoratori hanno già ottenuto il risarcimento, mettendo a dura prova i bilanci comunali e la stessa possibilità di ottenere – nelle more di una eventuale stabilizzazione – la proroga del contratto di lavoro, posto che i giudici ritengono illegittimo un contratto prorogato per oltre 36 mesi. La questione, già complessa e lacerante, si è di recente complicata a seguito della pronuncia della Corte di Giustizia Europea depositata il 7 marzo 2018 con la quale, in risposta a una questione posta dal Tribunale di trapani nell’ambito di un giudizio risarcitorio avanzato da un lavoratore precario, ha stabilito che oltre al danno forfettario il lavoratore precario ha diritto al risarcimento di ogni altro danno subito, se prova in giudizio la perdita di chance di occasioni di lavoro stabile a causa della condotta del comune che non lo ha stabilizzato, pur avendone i requisiti e le risorse. Se tale prova è di difficile acquisizione, desta preoccupazione quanto chiarito dalla sentenza del giudice europeo sulla responsabilità personale dei dirigenti che hanno autorizzato le proroghe oltre il limite dei 36 mesi: costoro debbono rimborsare il danno che il Comune è chiamato a risarcire ai lavoratori precari e non possono percepire l’indennità di risultato. insomma, si profila un clima da tutti contro tutti.

Vito Bonanno per Condividere
Segretario generale presso il Comune di Alcamo

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