La tradizione degli altari di San Giuseppe continua a essere un appuntamento significativo per le nostre comunità. La creazione dell’Altare e il coinvolgimento anche dei ragazzi nel preparare, ad esempio, i pani di San Giuseppe (con la loro ricca simbologia), rappresenta un’esperienza consolidata di evangelizzazione. Gli altari non sono un semplice fatto devozionale – il voto di saziari a tri picciliddri – per ottenere un “favore” divino (cfr. G. Pietrè, Feste patronali in sicilia, Palermo – Torino, 1900). L’abbondanza del pane e le centouno pietanze del banchetto di San Giuseppe erano un modo per cantare la fecondità della terra. L’altare finiva per rappresentare l’intera comunità. Ancor’oggi, la ritualità degli altari di San Giuseppe può segnare il tempo e lo spazio di una comunità che vive nella logica del bene comune e nello stile dell’amicizia sociale (cfr. Fratelli tutti). Luogo di questa ritualità collettiva è l’architettura dell’Altare nel suo insieme (non una semplice cornice scenografica); una struttura allestita principalmente con foglie di alloro, agrumi e pani; oppure, in altri contesti, con coperte. Gli altari di San Giuseppe possono rappresentare un “sentiero” per i cercatori di speranza, per attraversare “porte sante” di giustizia e di pace?
Pellegrini e cercatori di speranza come la Sacra Famiglia per riscoprire il senso del nostro cammino di fede.
Il rito di accoglienza che si svolge nel contesto degli altari di San Giuseppe non è una semplice drammatizzazione, a prima vista, folkloristica. Notiamo che Giuseppe e Maria percorrono un cammino di pellegrini, chiamati a sperimentare provvidenza ed ospitalità. Luca narra l’itinerario da Nazareth a Betlemme in cui si compiono i giorni del parto. Un secondo esodo, narratoci da Matteo, è, per l’appunto, la fuga in Egitto, paese in cui arrivano come forestieri; e il successivo ritorno a Nazareth, loro città, in cui devono reinserirsi. Il messaggio evangelico rievocato nelle drammatizzazioni sceniche popolari, nell’ambito degli altari di san Giuseppe, è più che mai attuale. Come ci ricordava papa Francesco: «La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria» (Patris corde, 5).
I racconti del Vangelo, nella pietà popolare (“il sistema immunitario della fede”), vengono narrati e “interprati” per mostrare l’assoluto atteggiamento di accoglienza da parte di coloro che preparano gli altari in onore a San Giuseppe: «Ci su tri poveri pilligrini, vinuti di luntana via», – recita un narratore (cfr. “Li parti di San Giuseppi” – il riferimento è al ritorno dall’Egitto – Mt 2, 19-23). Si tratta della rievocazione drammatica del rifiuto di ospitalità. Il “devoto” non accetta di identificarsi con coloro che lasciano porte chiuse. Solo alla terza richiesta del narratore di accogliere questi “poveri pilligrini” si apre la “porta” in cui è stato allestito l’altare e il banchetto di San Giuseppe. Nell’occasione della festa, la casa o la comunità, diventano davvero uno spazio dalle “porte” aperte, che, in qualche modo, esprime uno stile a cui ispirarsi nella ferialità.
Pellegrini e cercatori di speranza con gli ultimi per ritmare i nostri passi con i più fragili.
La creazione deglaltari ha sempre manifestato una particolare attenzione per i poveri e, ancor’oggi, è occasione per compiere segni di carità autentica e accogliente. Sovvenire ai bisogni degli ultimi comporta anche ascoltare, sostenere e accompagnare le esperienze di dolore. Le nostre fragilità sono talvolta amplificate da un assordante “silenzio” che ci circonda e ci impedisce di scorgere “passaggi” di speranza. Nella prova, il silenzio può farsi ancora attesa di una parola di salvezza: «Giuseppe è stato capace nella sua vita di ascoltare anche il silenzio di Dio, consapevole non del fatto che Dio sia silenzio, ma del fatto che il silenzio è il luogo di Dio, il luogo santo e benedetto da cui nasce il Logos, la Parola che salva» (J. Dotti – M. Aldegani, Giuseppe siamo noi, ed. San Paolo 2021, 105).
Non possiamo “toccare” la carne fragile degli ultimi se non siamo stati capaci di toccare con tenerezza le nostre fragilità: «Il maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza […] Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’accusatore» (Cfr. Ap 12,10 – Patris corde, 2 – Lettera apostolica 8 dicembre 2020). La tenerezza si fa compassione, attesa, pazienza, speranza, pellegrinaggio. San Giuseppe, pellegrino tra i Cercatori di Speranza (Mons. A. Giurdanella, Lettera pastorale 2024-25), alla cui “custodia premurosa”, Dio ha voluto affidare “gli inizi della nostra redenzione”, ci viene in aiuto.
Pellegrini e cercatori di speranza nella storia per annunciare una nuova cultura della giustizia, della pace.
La tradizione popolare degli altari di San Giuseppe, in questa forma espressiva magnificente, non si capirebbe se non ricondotta all’ambiente agricolo in cui questa e altre tradizioni si sono sviluppate nel tempo, circa la necessità di “benedire” il ciclo delle stagioni, per assicurarsi i proventi della terra e gustare la gioia del “riposo” (la festa). Le centouno pietanze che adornano il banchetto di San Giuseppe esaltano la fecondità della terra e sono segno di assoluta attenzione e gratuità per i più bisognosi. Nei racconti biblici emerge la possibilità di ritornare a ripercorrere un sentiero di giustizia con «la riscoperta e il rispetto dei ritmi inscritti nella natura dalla mano del Creatore. Ciò si vede, per esempio, nella legge dello Shabbat. Il settimo giorno, Dio si riposò da tutte le sue opere. Dio ordinò a Israele che ogni settimo giorno doveva essere celebrato come giorno di riposo, uno Shabbat (cfr. Gen 2,2-3; Es 16,23; 20,10). D’altra parte, fu stabilito anche un anno sabbatico per Israele e la sua terra, ogni sette anni (cfr Lv 25, 1-4), durante il quale si concedeva un completo riposo alla terra, non si seminava e si raccoglieva soltanto l’indispensabile per sopravvivere e offrire ospitalità (cfr. Lv 25,4-6)».
In breve, nella tradizione biblica il rapporto con la terra include una chiara apertura al prossimo (cfr. Laudato si’ , 71). «Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno» (cfr. Patris corde, 6). Invero, la proprietà terriera, o la “roba”, rivestiva, soprattutto in passato e nel meridione, un valore fondamentale. Accade quasi un processo di identificazione con la “roba” posseduta (cfr. R. Frattallone, 1988). Piuttosto, i testi biblici ci invitano non a possedere ma a “coltivare e custodire” il giardino del mondo (cfr. Gen 2, 15). Ovvero: arare, svolgere le azioni tipiche dell’agricoltore – per l’appunto “coltivare”; ma anche proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare – che nel libro della Genesi è espresso nel termine “custodire” (cfr. Laudato si’, 67).
Durante il banchetto di San Giuseppe è in uso offrire parte delle pietanze ai visitatori, come a indicare la necessità della circolarità del dono: tutti commensali attorno al Banchetto di San Giuseppe; un momento di “riconciliazione” comunitaria. Oggi siamo chiamati ricercare “passaggi” di conversione e avviare processi di discernimento. L’altare di San Giuseppe può rappresentare lo stile di una comunità in cammino che apre porte di giustizia e segna itinerari di speranza e di pace.
don Nicola Patti per Condividere