[LA RIFLESSIONE] Per non morire soli davanti alla propria vita

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«Ma potresti fare l’unzione degli infermi a mia zia in RSA (Residenza Sanitaria Assistita)? Devi essere prima però disponibile al sierologico, sai non fanno entrare nessuno per ora, per il fatto del Covid, e non vorrei che mia zia morisse oltre che sola anche senza sacramenti, senza il conforto e la consolazione della fede». La richiesta fattami da una mia alunna di Teologia mi ha spinto, non solo evidentemente a dirle di sì, quanto a riflettere su questo anticipo di morte che accade per i malati in condizioni gravi a causa dell’isolamento per il rischio contagio Coronavirus.

Stare da soli in prossimità della propria morte, senza poter godere degli attimi di vicinanza di coloro che ti amano, trasformando così con loro e per loro il passato in memoria, e la memoria, ovvero il pensiero alla vita, in gratitudine, ricordi, forse anche pentimenti, rimpianti significa abitare da soli il momento più difficile della nostra coscienza, ovvero il pensiero alla morte.

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È una solitudine tutta particolare. Al confine umano tra la paura e la serenità, tra la rassegnazione e la libertà, tra il senso di compiuto e la rassegnazione dell’impotenza. Sembra quasi di vedere te stesso, seduto davanti a te, raccolto nel suo tempo diventato malattia e solitudine. Questo tempo di coscienza veniva prima interrotto dalle grida dei nipotini, dai racconti dei figli per riempire un pesante silenzio, e tu quasi costretto lasciavi il tuo pensiero alla morte, per ascoltarli, per pensare ancora, fino alla fine alle persone che amavi.

È così si avviava la memoria come pensiero alla vita. Ora nessuno interrompe con le sue grida o i suoi discorsi, o le sue visite, il tuo pensiero alla morte. In ascolto di questi difficili pensieri, in prossimità di una vita che si raccoglie nel suo fragile e ultimo respiro, che nessuno raccoglierà al suo compiersi, vorrei sussurrare due parole, capaci di dire la differenza tra la morte e il morire. La morte resta ingiusta e frutto del peccato. Il morire è invece un cammino antropologico. Due parole, una a colui che si trova in queste condizioni, che ricordo bene anche nella mia carne, e una a Colui che sulla croce è stato trattato da reietto, da escluso, da separato, a causa della sua condanna sulla croce al cominciare del sabato.

La prima parola è: libertà da sè stessi. Posti davanti alla propria vita, alla propria storia, da soli, in prossimità della propria morte, si percepisce la libertà da sè stessi come il compiersi di un cammino di libertà. Questo è il momento in cui si compie la relazione che ognuno ha veramente con sè stesso. Vedendo il modo con cui moriva Gesù, a ragione, il soldato posto sotto la croce lo riconobbe come Figlio di Dio. Questo è il momento in cui ognuno, diventato il suo ultimo e fragile respiro, si consegna liberamente nella morte ai suoi cari, come memoria ed eredità, a Dio, come memoria e promessa.

Vorrei ora scrivere la seconda parola, quella rivolta a Gesù, che in verità non è solo mia, ma di quello che è morto della sua stessa condanna e di tutti coloro che, con la loro libertà e vita, diventano memoria dell’ingiustizia della morte del suo legame con il peccato: «ricordati di me quando sarai nel tuo regno». Il buon ladrone, come il malato isolato, non vuole essere dimenticato. Gesù, anche nel momento della sua morte, in forza della sua memoria, come pensiero alla vita, è riuscito a dare speranza al con-crocifisso con lui. La speranza nasce dalla certezza della memoria. Nessuno va dimenticato, sarebbe come farlo morire prima.

don Vito Impellizzeri per Condividere

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