[Il reportage]: Il Belice ferito dal sisma del ‘68, la Valle rinata, il mancato sviluppo e la fuga dai paesi

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Cos’è il Belice 45 anni dopo il sisma che lo sconquassò la notte del 15 gennaio 1968? Nei centri ricostruiti, il terremoto è stato come esorcizzato. Le lunghe schiere di case dai prospetti lindi che si affacciano su strade ampie sono una sorta di scongiuro. E il segno visivo di una sfida vinta: quella di un popolo che si riprende la sua vita e riannoda i fili della storia. Scampando alla regressione nella natura più incomprensibile e minacciosa in cui un sisma finisce con il cacciare un territorio. Lo sosteneva un acuto storico meridionale come Augusto Placanica: un grande terremoto non si limita ad uccidere l’esistenza biologica, ma rompe i cardini della natura, spingendo la società e la storia all’indietro.

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Il Cretto di Alberto Burri.

Nel Belice questo non è accaduto. Infatti, una zona che ancora portava addosso le “stimmate” del sistema feudale, è stata capace di trasformare le proprie strutture economiche e sociali. «Nel caso del Belice – ricordano i sociologi Alessandro Cavalli e Michele Rostan – il terremoto si è verificato in un’area che era considerata particolarmente arretrata. Ci si poteva quindi aspettare che tale arretratezza avesse condizionato negativamente la capacità delle comunità di riabilitarsi. Tuttavia, le conclusioni di una ricerca sulla gestione del terremoto sembravano andare in una direzione diversa». Secondo il direttore di quella ricerca, lo scomparso Aldo Musacchio, «si può affermare che nel Belice il terremoto ha costituito un veicolo di modernizzazione e di mutamento, un’occasione per uscire dalle strettoie del sottosviluppo ». Le popolazioni locali avrebbero dunque trasformato la distruzione in fattore di crescita collettiva. Con l’apporto, decisivo secondo alcuni, delle élites del tempo. Un meridionalista arguto come Emanuele Macaluso fa in proposito un raffronto tra il sisma di Messina e quello che colpì la Valle: «Nel 1908 Messina era una città attiva, sviluppata; dopo il terremoto, che distrusse un’intera classe dirigente, essa si trasformò in una città parassitaria. Il contrario di quanto avvenuto nel Belice, un territorio arretrato che grazie all’abilità dei suoi gruppi dirigenti ha saputo trasformare le proprie strutture economiche e sociali».

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Il vecchio teatro di Poggioreale.

Con somme, è bene ricordarlo, enormemente inferiori, circa un terzo, rispetto a quelle stanziate per il Friuli (lì si spesero 18mila miliardi di vecchie lire), colpito da un terremoto di pari intensità in una zona di uguale estensione. L’analisi di Macaluso cozza platealmente con tanta pubblicistica sempre pronta a sottolineare sprechi presunti e ruberie immaginarie. Ma è anche una risposta indiretta a quanti, per anni, hanno screditato le popolazioni locali presso l’opinione pubblica nazionale facendo apparire i belicini come degli accattoni che hanno inventato il mestiere di terremotato. Ma se il terremoto è esorcizzato, non lo è il pericolo che più di ogni altro incombe sul capo degli abitanti della Valle: il rischio della desertificazione. Un rischio sempre più concreto in assenza di un piano di sviluppo socio-economico, dallo Stato sempre promesso e dallo Stato mai attuato.

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Piazza Elimo nel vecchio centro di Poggioreale.

Una desertificazione che tradirebbe decenni di sforzi e sacrifici. Come nell’immediato dopo-terremoto, la gente ha ripreso a migrare. E i nuovi migranti sono soprattutto giovani. Il rischio che lo «Svimez» ha fatto balenare per il Meridione intero, vale soprattutto per il Belice: destinato a diventare un ospizio, una sorta di ricovero diffuso per gli anziani e per le loro badanti romene. Se ne deduce che per salvare la Valle dal terremoto sociale occorre molto più che fiumi di denaro.

Vincenzo Di Stefano per Condividere
(fotografie di Max Firreri)

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