[IL RACCONTO] Gennaio 1968, quando la Valle del Belice tremò….: i fuochi, i morti, le macerie e la speranza finita

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I falò si vedevano uscendo dall’ultima curva della Castelvetrano-Santa Ninfa. Lassù, sulla collinetta delle case Genco. Vecchi col fasciacollo sulle orecchie, sotto la coppola, bambini imprigionati nei plaid a quadri, nelle coperte e in qualsiasi altra lana. Uomini e donne con pacchi e trusce tutt’intorno alla fiamma. Fuochi sempre più pallidi. Ed era appena domenica sera. Al bivio di Salemi della 119 c’era gente per strada. Passando sotto Santa Ninfa, verso Gibellina, bisognava rallentare: letti addossati ai muri a secco, sotto i fichidindia, masserizie sin sulla carreggiata, gente che andava a zonzo col peso delle cose che aveva tolto da casa e dello spavento. Ogni tanto fermavo la 500 grigio topo, scribacchiavo qualcosa, tentavo qualche foto alla luce dei fari dell’auto.

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Ero partito nel tardissimo pomeriggio da Mazara del Vallo, dopo aver saputo che il comizio del deputato regionale del Pci, Salvatore Giubilato, a Santa Ninfa era stato annullato a causa di una scossa di terremoto. Ore 23 abbondanti, il via vai si calmava. I bambini si erano assopiti nell’addiaccio degli sgoccioli del 14 gennaio. Bisognava non far spegnere i fuochi. Temporeggiavo fra le curve dello stradone, poi me ne tornai alle case Genco. Alle tre di notte, guidavo sotto Salemi. D’improvviso la macchina sbandò. A lungo. Ero solo sulla statale. Riuscii a non uscire di strada. E arrivai a Palermo. Al giornale L’Ora c’erano Sergio Buonadonna e la famiglia De Mauro. Non si trovava nessuno. Nemmeno i fotografi. Poi arrivò trafelato il direttore Vittorio Nisticò. Consegnai il rullino e, di fretta, salii su un taxi coraggioso, con Mauro De Mauro sdraiato sul sedile posteriore.

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Tra buio e chiarore di una giornata che si annunciava brutta, De Mauro bisticciava con un capitano dei carabinieri che non voleva farci avvicinare al bordo strada, panoramico su Gibellina. Vinse lui, l’abile giornalista. E sarebbe stato meglio che avesse perso. Rovine a perdita d’occhio, non un tetto all’in piedi, militari in divisa e in borghese che scendevano verso il margine della distruzione. Sbattevi gli occhi per cancellare quell’orribile miraggio, ma rimaneva lì. Col suo silenzio scalfito dal rotolare di qualche tufo che aveva perso l’equilibrio. Un poliziotto-fotografo mi diede un rullino Ferrania, e scattai le foto. I cavalli e le mule correvano nei pantani di Montevago fra mute di randagi, e si imbizzarrivano davanti ai camion carichi di sterro, mobilio sconquassato, ferraglia. Gli autisti col fazzoletto sulla bocca, come nei film di Tom Mix e di Randolph Scott, per difendersi dai temuti contagi in quell’aria oramai fetida di roba andata a male, carogne di cani, asini, galline, topi. E di morti senza tomba. I volontari dai capelli lunghi, soldati, vigili del fuoco, parenti scavavano. Anche con le mani.

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Fiori sui ruderi della Matrice di Salaparuta.

Dovevano trovare circa trecento vittime. Dovevano salvare Cudduredda dalle macerie mentre la televisione riprendeva e scattavano i flash dei fotografi. Forse tempo perduto. La bambina morì in braccio a un vigile del fuoco che piangeva. C’è sempre lentezza nei soccorsi, c’è sempre un margine di vita e di morte fra le mani familiari sanguinanti e l’arrivo di tecnici sapienti ed estranei. Quello che accadeva in quei 14 ex paesi con i tetti di canne e gesso è difficile dirlo a parole. Bisogna immaginarlo, immaginare anche che vi erano sciacalli in mezzo a quelle povere pietre. Immaginare con che cuore i protagonisti della campagna elettorale del maggio futuro andassero a promettere mentre la gente salvava dalle ruspe in arrivo un cuscino, il bacile, un capezzale di carta, le scarpe screpolate del bambino. Pioveva sulle tendopoli. E il freddo era da proverbio. Sul terriccio c’erano sporche tracce di neve. Sotto i teli si tossiva, e su ogni tenda c’era appollaiata la paura della meningite, del colera, delle polmoniti e delle altre malattie che accorrono sui luoghi dei disastri, come iene invisibili. Le medicine, i vaccini, l’acqua, i viveri si impantanavano con i camion nelle fanghiglie. Ogni mezzo che arrivava a tiro, veniva assediato da denutriti, gente squassata dal catarro, volti provati pure nelle rughe della campagna. Si distribuiva pane, coperte, vitto militare.

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Quel che rimane del teatro dell’antico abitato di Poggioreale.

Roba che non bastava per i settantamila, forse novantamila, con le scarpe nel fango e sulla testa il sottile telo grigioverde delle tende. Qualche centinaio era ricoverato nei vagoni dei binari morti. Nei paesi rimasti in piedi, gli sfollati stipavano le scuole. L’esercito passava il rancio delle sue cucine da campo, c’erano tende ospedale di lingua straniera, tende chiesa, tende scuola, tende barbiere. Distesa di tende congelate dalla pioggia e dalla gara fra maestrale e tramontana. Impressionante, mai viste prima così tante. Le parole, le risate, le ire, le affettuosità, i rumori rimbalzavano tra i fogli di faesite, e si propagavano come un’onda impudica per tre quattro cinque baracche. A Rampinzeri, nel “Villaggio della Madonna delle Grazie” e in tutti gli altri con i nomi oramai rifugiati nella memoria labile, che appare e disappare. A distesa nei terreni dove il “grado babo” era stato schiaffeggiato da quello Mercalli. Montevago sconvolgente. Salaparuta, Poggioreale, Santa Margherita, sino a Salemi e Castelvetrano. Baraccopoli e case hangar di lamiera col freddo e il caldo sbagliati, sole e pioggia che lavoravano all’infiacchimento. Dieci anni, venti anni. Gente che è morta chiedendo ancora quattro mura, ragazzini cresciuti senza immaginare che cos’è una casa. Nel ’73, baracca numero 12. Un lettino, tre coperte, la portatile Olympia, la macchina fotografica Topcon.

Il Cretto di Alberto Burri che oggi ricopre le macerie dell'antica città di Gibellina, rasa al suolo dal terremoto.
Il Cretto di Alberto Burri che oggi ricopre le macerie dell’antica città di Gibellina, rasa al suolo dal terremoto.

Il “Diario dalla baracca”, lunghi reportage che raccontavano quella vita dalla dignità trattenuta con le unghie. La baracca “ferramenta”, il bar baracca, le baracche scuole con le stufette elettriche dalla gittata di trenta centimetri, la baracca parrocchia di don Antonio Riboldi, e quella municipio di Vito Bellafiore. E Danilo Dolci, Lorenzo Barbera, Ludovico Corrao schierati contro i “sopralluoghi conoscitivi” di coloro i quali volevano ancora qualcosa da quella gente che non aveva più nulla. Le proteste per l’acqua, i biglietti gratis a chi voleva emigrare, i viaggi a Roma con i vagoni alla stazione di Palermo pieni di coppole e scialli, e bambini che issavano cartelli più grandi di loro. Scandalo del Belice, malgoverno, spreco, intrallazzi e mafia. Parole, entità e categorie che si addicono alla lunga vicenda dei terremotati della Valle del Belice. Anche calcolato disinteresse. Nei primi giorni dopo la tragedia, un inviato scic con gessato e scarpe inglesi, in un albergo di Mazara del Vallo, chiedeva agli inviati infangati che cosa fosse successo. Poca cosa, fu la sua sintesi, qualche morto e casupole cadute.

Nino Giaramidaro per Condividere

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